“Ma non sono mica un proletario io!”

Due o tre cose sulla Bicocca, su Vittorio Gregotti e sul quartiere dove vivo.

GabrieleFerraresi
4 min readFeb 21, 2018

[Questo testo era apparso nel 2013 su Osso, la rivista su Milano di Tommaso Labranca, oggi introvabile. Visti i 90 anni di Vittorio Gregotti, la mostra al PAC, e soprattutto visto che mi andava, lo ripubblico qui]

C’è un servizio risalente al 2006 de Le Iene, dove Vittorio Gregotti — architetto, classe 1927 — è oggetto di una visita da parte di Enrico Lucci. Lucci arriva nello studio milanese della Gregotti Associati, un gradevole edificio art nouveau di via Matteo Bandello 20, due passi da San Vittore.

Poche inquadrature e Lucci si accomoda in una sala riunioni dove rinfaccia a Gregotti il progetto del quartiere ZEN di Palermo, edificato dal 1969 in poi. A una domanda particolarmente sciocca di Lucci, Gregotti, uno che era in confidenza con Luciano Berio quando Lucci doveva ancora nascere, uno che era nel Gruppo 63 quando Lucci doveva essere ancora concepito, risponde: “Se andrei a vivere allo ZEN di Palermo? Ma non sono mica un proletario io!”.

Tutto tarato a misura di indignazione dei semplici, cosa vuoi, in fondo è Le Iene, mica Abitare. Tutto nella norma.

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Ma passiamo a noi: anzi, a me. Perché io vivo nell’evoluzione riuscita dello ZEN di Palermo, il quartiere Bicocca di Milano. Progetti nati per destinazioni d’uso differenti: la Zona Espansione Nord nasce per quello che al tempo si chiamava Istituto Autonomo Case Popolari, mentre la riqualificazione industriale a Milano nord è frutto di un riposizionamento di Pirelli dall’industriale all’immobiliare. Nel secondo caso si tratta di buona edilizia civile, a catasto come categoria A2 — a un maledetto passo dalla categoria A1, quella delle abitazioni di tipo signorile. Primi degli ultimi, ultimi dei primi.

I punti stilistici in comune tra ZEN e Bicocca sono molti, perché nel razionalismo italiano di cui Gregotti raccoglie l’eredità c’è la volontà di proporre un’ipotesi di ordine; un’ipotesi, non vuole avere ragione per forza Gregotti, ma quantomeno offre una soluzione, contrapponendola al caos. Se da una parte quella ipotesi di ordine non ha funzionato e non funziona — lo ZEN — dall’altra funziona — il quartiere Bicocca.

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Vivo nella casa dove ora sto scrivendo dal 2009 e non me ne andrei mai. Mi piace questo luogo dove ogni cosa è simmetrica, ordinata: oppure ordinatamente asimmetrica. Più che le mie singole esperienze però penso valga la pena riportare qualche dato sul progetto e sulle sue origini.

Nella prima metà degli anni ‘80 l’insediamento industriale della Pirelli a Milano nord non lavorava più come un tempo, così Leopoldo Pirelli decise di cambiare tutto. Lo spazio c’era: la superficie che la sua industria di famiglia occupava al tempo era di 714.035 mq, di cui 372.385 coperti e 598.778 calpestabili. Nel 1985 il bando per la riqualificazione, cui parteciparono venti studi. La trasformazione fu ben documentata: nel 1985 RaiTre affidò a una giovanissima Milena Gabanelli un documentario, Trasformazione di una fabbrica della gomma, Silvio Soldini produsse invece un cortometraggio, La fabbrica sospesa — datato 1987 — mentre nel 1985 Pirelli chiese a Gabriele Basilico di fotografare il mutamento di un’area che dopo un secolo si apprestava a cambiare faccia. Il 7 luglio 1988 il bando fu assegnato alla Gregotti Associati: di lì in poi partirono i lavori.

La primissima facoltà universitaria aprì nel 1991 — Scienze Ambientali — poi tutto il resto, compreso il Teatro degli Arcimboldi. Si cominciò a parlarne nel 1996, inaugurò nel 2001 e da gennaio 2002 a dicembre 2004 accolse il cartellone della Scala, all’epoca oggetto della ristrutturazione di Mario Botta.

E oggi?

Oggi la Bicocca è un ottimo quartiere di edilizia civile, la più riuscita riqualificazione milanese: non farei paragoni con Milano Santa Giulia, situata esattamente agli antipodi di Milano, a sud, verso Rogoredo.

Un quartiere vivo come può essere vivo un quartiere del 2013, cioè: no. Un quartiere senza quelle pericolose illusioni di essere una comunità. Ho vissuto per anni in case ex popolari: erano state in precedenza abitate dagli operai della Oleoblitz, la fabbrica di Ernesto Reinach — una vicenda da recuperare quella di Reinach: ma ci ha già pensato Philippe Daverio.

Dicevamo: avendo vissuto in uno scenario dove, teoricamente, dovrebbe sopravvivere una qualche forma di gemeinschaft opposta alla gesellschaft, posso garantirvi; ma quale comunità opposta alla società. Ci si odia, cordialmente o meno, ma ci si odia, non si vede l’ora di andarsene.

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Qui in Bicocca invece non c’è spazio per l’odio o l’amore, forse non c’è proprio spazio per il (ri)sentimento, albergano ordine, buon sonno e strade silenziose. Questo quartiere è fatto di panorami dechirichiani, mentre altri angoli assolati sembrano di Rothko, d’inverno, tardo pomeriggio, quando il sole basso scalda il rosso slavato degli edifici U6 e U7.

Difficile fare previsioni, ma per me questo tra un secolo sarà un quartiere nei libri di architettura (esattamente come certe Esselunga di periferia: non capite oggi, ma perfette, “giuste”, armoniosamente inserite).

Poco importa visto che sarò morto e a godersi questa fortuna saranno i miei eventuali eredi. Nel mentre se possibile, io resterei qui.

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