Dall’Autogrill ad Amazon, siamo tutti Pasquale Amitrano

Infatti ci facciamo svuotare le tasche da Amazon come una volta dall’Autogrill: Gianluca Diegoli in “Svuota il carrello” spiega come il marketing non smette — e non smetterà mai — di sedurci.

GabrieleFerraresi
6 min readNov 3, 2020

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Premessa: come il pilota di Volpi Forza Cinque in Pulp Fiction, certi articoli finiscono pubblicati, certi altri diventano niente. Lui era uno di quelli che è diventato niente: quindi lo metto qui su Medium.

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Oggi uguale, ma sia all’Autogrill che su Amazon.

In Bianco, rosso e Verdone — film del 1981 — uno dei tre protagonisti interpretati da Carlo Verdone si chiama Pasquale Amitrano: è l’emigrato in Germania che torna in AlfaSud a votare in Italia. Prima di arrivare al seggio però si ferma in un Autogrill per un panino e finisce sedotto dalle merci esposte, che compra in trance acquisitiva spendendo un capitale — per poi riporle in auto e farsele rubare. E farsi rubare pure le borchie dell’AlfaSud.

Come spesso nella migliore commedia ridiamo di Amitrano, senza accorgerci che Amitrano siamo noi.

Oggi il funnel — l’imbuto con conduce all’acquisto, che i marketer bramano noi percorriamo — non è più solo nelle soste in autostrada o nel retail tradizionale, è anche e soprattutto online: su Amazon, su Ebay, nei mille corsi fuffa di presunti guru che troviamo tra le inserzioni sponsorizzate di Facebook. Rispetto al passato oggi è più facile spendere — l’acquisto con un solo click, i dati della nostra carta di credito neanche da inserire… tutto così liscio, levigato — e viviamo in un mondo un po’ più rischioso per le nostre tasche e per i nostri estratti conto.

È un mondo che Gianluca Diegoli, consulente marketing e docente conosce bene e che ha raccontato in Svuota il carrello — Il marketing spiegato benissimo per UTET: «Nonostante l’esempio dell’Autogrill e di Amitrano abbia quarant’anni, ormai a certe cose proprio non facciamo caso: ci sembra normale che siano così e quindi non ci riflettiamo più». Diegoli nel libro parte dai prodotti civetta — il caffè al bar, per esempio — che servono per farci avvicinare ad altro che non vogliamo comprare, ma che finiamo per comprare — le gomme da masticare, un classico — o per farci semplicemente spendere di più. In che modo? Il bar è un laboratorio perfetto per capire come si vende qualcosa che non ci serve davvero, tra uno schiumato freddo in tazza grande e un ginseng in tazza di vetro:

«C’è da tempo una proliferazione di varianti del singolo caffè, così forse qualcuno avrà pensato “Visto che agli italiani piacciono le variazioni del singolo caffè, questa voglia di diversità la monetizzo, no?».

I prezzi cambiano magari di poche decine di centesimi per combinazioni sempre diverse di tre cose, panna, caffè, schiuma: ma poi un ghirigoro, un cuoricino, o anche la tazza — trasparente, grande, calda, fredda, tiepida… — servono per venderci prodotti che costano più di un euro, ovvero il prezzo della tazzina no frills che volevamo all’inizio.

Dai prodotti civetta ai “bundle”, i pacchetti classici da certi bar nelle stazioni con caffè, spremuta, brioche — spremuta e caffè che non volevamo, ma se costano così poco…- al cross selling — qualcosa che non volevi comprare ma che si abbina perfettamente agli altri acquisti — e l’upselling — convincere che l’altro prodotto che costa un po’ di più di quel che volevi, fa più per te — e così via, il passo è breve. Sono tecniche ed esempi classici del marketing — passati con grande tranquillità dall’offline all’online — quelli che racconta Diegoli, e vanno dai prezzi della grande distribuzione col finale in “99”, alla catena di negozi con divani eternamente in offerta, al marketing del tabacco adattatosi a ogni legislazione restrittiva finendo col venderci camicie da boscaiolo, non potendo più colorare di bianco e rosso le Formula 1.

Sono tutte cose note a chi nel campo lavora, ma molto, molto meno note a chi fa tutt’altro, conferma Diegoli: «C’è gente che mi manda delle foto e dice “Adesso vedo Tiger sotto tutta un’altra luce”», ed è la luce che acceca noi spendaccione falene e ci conduce a comprare qualcosa di cui non avevamo bisogno, davanti al computer come nelle corsie dell’IKEA.

«Un altro dei concetti che mi sono accorto non erano passati al grande pubblico è quello dell’ancoraggio del prezzo. Il bias di ancoraggio agisce quando prendiamo decisioni trovandoci troppo influenzati dalla prima informazione: è la funzione del prezzo di listino, al quale poi riferiremo eventuali sconti o valutazioni”. Il bias dell’ancoraggio funziona molto bene — non per noi, per chi ci vuole far spendere — anche perché nessuno o pochissimi di noi hanno davvero idea di quanto debbano costare i prodotti che acquistiamo. Quindi vedersi proporre uno sconto incredibile su un prezzo completamente teorico — una nota catena di divani lo fa di continuo — può farci vacillare; non volevo cambiare divano, però con questi sconti… un meccanismo psicologico simile al “Se costa così tanto, per forza deve essere migliore”. Non è affatto detto.

Anche perché il prezzo che decidiamo di pagare per qualcosa è collegato anche ad altro, a tutto, fuorché alla razionalità pura da economia classica: «Se fai un test alla cieca sapendo il prezzo e non sapendo il prezzo di un prodotto, le cose variano in maniera spettacolare. Quando sai il prezzo sei già influenzato, e accade la stessa cosa con la marca di un prodotto. Se tu sai che quei frollini al cioccolato non sono la brutta copia ma sono quelli “veri”, ti viene da dire che quelli di marca sono più buoni, no? Perché sai che sono quelli originali, ma in realtà se fai lo stesso test senza saperne nulla, insomma… le cose possono andare diversamente. C’era stato anche un esperimento di McDonald’s, che aveva organizzato un finto negozio di hamburger gourmet, dove però i panini erano sempre quelli del McDonald’s» e ovviamente tutti i “noi” a gustarli deliziati.

Altro elemento per farci stare in pace con noi stessi una volta strisciata la carta di credito, è il packaging. La scatola. Che non è solo l’involucro del prodotto, ma molto di più:

«Non è un caso che quando compri un iPhone ti sembra di aprire la scatola di un gioiello. Anche se alla fine, che te ne fai della scatola?» la lascerai nello sgabuzzino e te ne dimenticherai «Però ti dà quel senso di conferma, di avere fatto la spesa giusta, di aver speso bene i tuoi soldi».

C’è poi un capitolo delizioso del libro di Diegoli, quello in cui si infiltra in un corso fuffa di un presunto guru del marketing online. È il genere di guru che capita di incontrare nelle inserzioni su Facebook: tutti hanno un segreto da svelare, tutti vogliono condividerlo con noi, per farci ovviamente diventare ricchi e vincenti come loro. Ovviamente non funziona proprio così: «C’è sempre un segreto che è un passo avanti rispetto a dove sei tu in quel momento: tu sei su Facebook, ti stai facendo gli affari tuoi, e il segreto è per esempio “Perché la tua azienda va male? C’è questo pdf dove ti diremo un segreto che adesso non sai…”».

C’è sempre un problema di partenza e la promessa di risolverlo con un segreto, ec’è sempre un segreto che è un passo oltre.

Solo che a ogni passo, il passo oltre costa sempre qualcosina in più: «Il primo passo di solito è gratis, il secondo magari è un corso online, dove prima dovrai iscriverti alla mia newsletter, dove ti bombarderò di mail che ti faranno sentire in colpa perché tu non sei diventato ricco mentre il guru e tutti gli altri che lo seguono sì, fino ad arrivare alla monetizzazione, magari in presenza: quindi un seminario, dove finalmente il segreto di terzo livello ti verrà svelato». Se non che quando sei al seminario scopri che il terzo livello non è l’ultimo livello, ce n’è un quarto, forse un quinto, altri dicono addirittura un sesto e un settimo; e poi probabilmente infiniti altri.

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GabrieleFerraresi
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Written by GabrieleFerraresi

Lavoratore intellettuale salariato.

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